venerdì 12 giugno 2009

Nuovo racconto di Dakkar

Chiedo scusa per la lunga assenza. Chiedo scusa a quelli che mi hanno scritto. Nonostante io sia Penelope sono comunque umana, e questo è anche per me periodo di esami.
Direi anche, senza però voler parlare troppo di me, che ho provato a rendere una passione un'abitudine, ma non ha dato i suoi frutti. Ho una testa troppo leggera. Movimenti troppo incostanti.
Ma in fondo, di questo blog vanno apprezzati anche i lunghi silenzi oltre le molte parole.
Segue qui un racconto di Nashir Dakkar, diventato mio fedele scrittore. Un racconto che intreccia un filo per me inaspettato a quelli che già tessevo.



PAURA: ATTO PRIMO

Vasco Schiavone camminava soddisfatto per le vie di Gotham. Respirava a pieni polmoni
l'aria fresca della sera: la pioggia aveva smesso da poco e la puzza della città sarebbe rimasta intrappolata nelle pozze per un po'.
Camminava fiero di se stesso, rigirandosi il tirapugni tra le dita nella tasca della giacca nuova. Era il suo portafortuna, un piccolo gioiello, che all'occorrenza poteva sfoderare una lama di dieci centimetri affilata come un rasoio. Così come sentiva il calcio della grossa Luger 9mm che batteva a ritmo con il passo contro i muscoli del petto.
Le armi facevano sentire Vasco al sicuro. Non che ne avesse realmente bisogno: alto due metri e cinque centimetri grosso come un armadio. Il cranio rasato e un piccolo pizzetto,appuntito ad arte con abbondanti dosi di gel, lo rendevano un diavolo, un enorme cazzuto diavolo con il quale era meglio non mettersi contro. Così lo chiamavano gli altri ragazzi al club del boss, Vasco The Italian Devil, o O'Demon, storpiando la sua pronuncia italiana.
A Vasco piaceva che la gente lo temesse, vedeva come le persone che incontrava lo guardavano impaurite; certe volte urtava i passanti apposta per provocarli, e vedere come quelli si ritirassero in silenzio senza dire una parola, paralizzati dal terrore della sua massa enorme.
Quello era stato un mese buono per Vasco, lo avevano appena assunto in uno dei locali più in della città; lo avevano assunto come buttafuori, naturalmente.
Il boss era nient' altro che Carmine Falcone, Vasco provava una profonda ammirazione per il boss. Vedere il modo con cui tutti lo rispettavano, con cui tutti lo temevano, era qualcosa che anche lui avrebbe voluto, e che un giorno sarebbe riuscito ad ottenere.
Il lavoro era buono, ogni tanto doveva pestare qualche idiota che voleva fare il buffone o che si metteva in testa di pestare i piedi al boss, questo lo divertiva sempre, lo aiutava a distendere i nervi. A volte, quando ne avevano bisogno, lo mandavano nell'East End, per rifornire qualche pusher rimasto a secco, la parte più bella di quel lavoro era che gli permettevano di tenersi qualche assaggio per se, e la roba di Carmine Falcone era sempre buona.
Adesso si era anche messo insieme a Norma, una delle spogliarelliste che lavoravano nel locale del boss. Certo, spesso Norma era una testa calda, e, quando gli parlava in inglese velocissimo lui non capiva doveva tirarle qualche schiaffo per ricordarle che era lui l'uomo. Però aveva un bel corpo, era giovane e apprezzava gli svaghi; non che si fosse mai chiesto se avessero qualcosa di realmente in comune, non gli importava, e a lei nemmeno, si era messa con lui per il senso di protezione che riusciva a darle e a lui questo era sempre bastato.
Mentre camminava, tronfio e rilassato, sentì il rumore di piccoli tacchi che battevano contro l'asfalto del marciapiede, si voltò verso l'altra parte della strada, una donna stava camminando da sola, debolmente illuminata dai lampioni malridotti. La strada era deserta, solamente qualche barbone e qualche drogato accasciati per terra. Improvvisamente a Vasco venne l'impulso. Si sentiva potente, ma quella donna: come si permetteva di camminare da sola per strada la sera, per la sua strada. Cioè quanto doveva essere puttana per fare una cosa del genere? Era ovvio che aveva bisogno di una lezione, la reclamava, era come se gli stesse gridando di farlo, gli lanciava segnali in continuazione.
Era quello che voleva.
Lentamente, senza fretta, Vasco si portò sull'altro lato della strada, cominciò a fischiettare.
Lei si voltò un attimo, come se non volesse essere vista, poi affrettò il passo. Vasco regolò
la sua andatura di conseguenza, cominciò a sentire l'adrenalina pompargli nel sangue, già pregustava il tutto. Fecero una decina di metri, poi lei cominciò a correre, Vasco la seguì, i
tacchi di lei non le permettevano un'andatura troppo rapida, su un dosso, perse l' equilibrio e cadde, lui rallentò, non c'era davvero fretta.
Lei si rialzò faticosamente lamentandosi, e si trascinò dentro un vicolo, forse sperava che lui non la vedesse, che continuasse per la sua strada, ma, ovviamente, non fu così.

Vasco tolse le mani di tasca e si affacciò al vicolo, diede una rapida occhiata: era buio,
molto buio, l'unica luce erano i flebili raggi di un lampione dall'altra parte della strada. Per
un attimo il cielo fu schiarito da un lampo, presto sarebbe ricominciata la pioggia.
Vasco la vide, era rannicchiata dietro alcuni bidoni della spazzatura, due o tre erano rovesciati, si sentiva un gran puzzo. Aveva il volto impietrito, e divenne ancor più pallido quando lo vide avvicinarsi, frugò nella borsetta e tirò fuori un piccolo cilindro. Lui si avvicinò. Lo spray lo colpì su una guancia provocandogli un leggero pizzichio. Oramai era abituato, ghignò e la prese per i polsi, lei cominciò a gridare.
Era molto giovane, forse aveva sedici anni, forse meno, le più assatanate, con quell'aria
da santerelline, c'era una sola ragione per la quale si mettevano i tacchi e si vestivano con gonne così corte, pensò Vasco.
- Sta calma piccolina! Lo zio Vasco sa cosa vuoi, ed è pronto a dartelo!- lei gridò ancora, il volto rigato dalle lacrime, il trucco sfatto, impotente nella sua presa poderosa.
Lui le afferrò entrambe le mani con la sinistra, mentre con la destra frugava in tasca in cerca del coltello; lei provò a tirargli calci, ma questo lo fece solamente arrabbiare di più, le diede un ceffone che la lasciò mezza tramortita, poi estrasse il coltello e fece scattare la lama.
Scintillò alla luce del lampione, mentre, con mosse rapide e confuse si avventava sui suoi vestiti, lei provò a gridare ancora. Questa volta c'era un aria di supplica, come di arresa, lui non si fermò, adesso aveva messo in mostra il seno; giovane e piccolo, avvolto in un reggiseno nero.
Vasco ghignò ancora, si slacciò la cintura, poi la sentì.
Una voce profonda come la notte, oscura come l'abisso, gelida come la morte - Fermati-.
Si impietrì, provò a voltarsi ma non vide nessuno, si dimenticò della ragazza e scrutò le tenebre. -Chi cazzo sei?- urlò al vuoto brandendo il coltello, poi le tenebre si mossero: vide qualcosa cadere in fondo al vicolo e ammassarsi per terra, la massa scura si alzò lentamente, come se fosse la morte stessa che usciva dall'inferno.
Vasco la vide, illuminata per un attimo dalla luce di un secondo lampo, fece un passo all'indietro. Doveva essere alta almeno tre metri, lo fissava con due fessure bianche, gli occhi più crudeli che Vasco avesse mai visto, arretrò ancora, incapace di agire.
Per Vasco tutte le storie che circolavano erano solamente ridicole leggende metropolitane.
Aveva sentito del pipistrello, come tutti a Gotham, ma non ci aveva mai veramente creduto, pensava che fosse una di quelle cose che si raccontano così, per spaventare i pivelli, ma adesso era lì, davanti a lui, ne era sicuro, anche se non lo aveva mai visto era sicuro. Era Batman.
Batman cominciò ad avanzare, era come se fosse fatto di ombra, Vasco distingueva solo
le orecchie appuntite, gli occhi e vagamente i contorni del corpo, anche se adesso sembrava più piccolo, Vasco non riusciva a mettere a fuoco i suoi sensi.
Strinse il coltello nella mano fino a sbiancarsi le nocche. In fondo Batman era solamente uno, poteva essere un uomo, aveva sentito dire qualcuno dei ragazzi che in realtà Batman doveva essere un uomo travestito, questo pensiero, per quanto in quel momento gli sembrò vago e quasi ridicolo, gli permise di aggrapparsi ad una speranza di farcela. Cercò di dimenticare tutti quelli che aveva visto con braccia rotte e costole incrinate, allora non ci aveva dato importanza, pensava che gli sbirri avessero usato la mano pesante, adesso aveva paura anche per la sua anima.
Gridando, si lanciò verso l'ombra.
Ma Batman non c'era già più, la lama saettò nel vuoto mentre scompariva per ricomparire a fianco di Vasco. Sentì il braccio bloccato, come in una morsa d'acciaio, poi il corpo gli si sollevò e si schiantò sul muro di fronte.
Vasco tossì e cercò di rimettersi in piedi, davanti a lui l'enorme figura nera, pronta e in posizione; accecato dalla paura e dalla disperazione si rialzò e, gridando come un pazzo, si scagliò sul pipistrello menando fendenti. Batman non si scompose, schivava i colpi come se Vasco si fosse mosso al rallentatore.
Nessuno può essere così veloce, pensò Vasco, nessun uomo può muoversi così, deve essere un fantasma, poi, con una mossa fulminea un braccio spuntò dalle ombre e gli afferrò il polso.
Si piegò e fermò l'assalto mentre una mano forte come una morsa gli stritolava i nervi e le ossa, lasciò cadere il coltello, provò a ribellarsi, ma un secondo braccio spuntò dalle tenebre, colpì Vasco all'altezza del gomito, la giuntura si piegò in modo innaturale con un flebile crack, come se il braccio muscoloso dell'uomo fosse stato di gomma. Ululò dal dolore, Batman lo lasciò e lui si accasciò a terra.
Confuso e terrorizzato Vasco aveva già perso il controllo della sua vescica, si sentiva impotente come un pupazzo di pezza nelle mani di un demone, il braccio gli scoppiava dal dolore. Poi sentì il calcio della Lugher sul petto. Concentrando tutti gli sforzi allungò la mano sinistra e afferrò la pistola. Adesso Batman era girato, si stava chinando sulla ragazza, forse voleva mangiarla, forse il prossimo sarebbe stato lui. Doveva fare qualcosa.
Con il pollice tremante armò il cane con uno scatto oliato, poi cercò di mantenere dritta la mira, la ragazza si sporse e lo vide, urlò ma Batman era come se avesse visto nel futuro.
La pistola tuonò in aria con fragore, la mano nera di Batman era serrata attorno a quella di Vasco.
La pistola puntata in aria. L'uomo sentì le dita scricchiolare sotto la mano del pipistrello, l'anulare si spezzò come un ramoscello. Fece per cacciare un secondo urlò,ma Batman lo afferrò per la giacca, lo sbattè contro il muro e gli sussurrò con la voce dell'oltretomba
-Sei finito verme schifoso, la prossima volta che ti incontro ti porterò all'inferno. So chi sei Vasco Schiavone, so chi sei e cosa fai, dillo anche al tuo capo, spargi la voce tra la feccia come te. Io sono Batman e questa è la mia città!-
Poi lo lasciò andare. Vasco guardò a terra , la vista annebbiata dal dolore, l'ultima cosa che vide fu il piede di Batman dritto verso la sua faccia.

venerdì 15 maggio 2009

La nascita delle storie


Ho letto e apprezzato autobiografie e romanzi di vita vissuta, ma la nascita di questo tipo di storie non mi interessa particolarmente. Mi interessa, invece, il parto della storia inventata, irreale. Complessa o semplice che sia.
Voglio trovare una biografia, una cronaca dell'inseminazione, della
nascita della storia. Processo che sfugge totalmente alla mia comprensione, nonostante io scriva storie.
Sono affascinata dall'idea blasfema e pagana di un dio delle favole, un satiro del plot che di notte scenda nelle orecchie del narratore o dell'inventore, non per forza scrittore, e gli suggerisca uno spunto un'idea, anche solo un personaggio. Poi questa astrazione, questo feto comincia a crescere fino a diventare un qualcosa di martellante. Un tumore da fare uscire dai polpastrelli sulla tastiera del computer.

lunedì 4 maggio 2009

Racconto di Nashir Dakkar

Il principe Nashir Dakkar mi ha mandato questo racconto, la storia del suo poeta morto.


Prima di cominciare a leggere, alcuni chiarimenti dell’autore:
luniciclo: circa 27 giorni e dodici ore
geociclo: 23 ore e 45 minuti
Ohm: 57,34 minuti
micrOhm: 44,56 secondi
scarbog: piccolo insetto simile ad uno scarafaggio ma senza le ali
cavolatta: grosso animale simile ad un artropode, possiede dieci paia di zampe, quattro di queste sono tre volte più grosse delle altre e permettono alla cavolatta di spostarsi rapidamente sul terreno compiendo prodigiosi balzi, alcuni di questi animali possono raggiungere le dimensioni di un’ automobile.

Sapeva che Char era un pianeta importante, cruciale, o sapevano bene tutti; lo ripetevano tutti i giorni, doveva essere importante per forza. C’erano 12 battaglioni schierati e trincerati solo in quel settore.
Non sapeva esattamente quanti uomini fossero, ma 12 battaglioni erano parecchi e dovevano essere qualche migliaio. Fanti ammassati l’uno accanto all’altro in file interminabili. Dovevano difendere la Miniera, ma lui della miniera aveva visto solamente delle luci in lontananza.
Era in una delle prime linee, e non si spostava da lì da due lunicicli.
Era il suo turno di guardia, sdraiato per terra, scrutava davanti a se, un paesaggio brullo e grigio senza soluzione di continuità.
Se prendeva il binocolo, riusciva a scorgere gli elmetti del nemico, infossati in trincee come lui, a sole poche centinaia di metri. Sentì una goccia fredda che gli colpiva la mano.
Su quel maledetto pianeta pioveva quattro geocicli su cinque. Strinse le mani attorno al fucile tentando di scaldarsi, mentre si tirava addosso una cerata, ancora mezza per la pioggia precedente.
Erano passati circa trenta microOhm, lui, sotto la pioggia, non si era mosso, ma il terreno si era trasformato velocissimamente in una fanghiglia fredda e appiccicosa. Non riusciva a capire come un pianeta, sul quale pioveva così tanto, poteva essere così deserto e spettrale.
La notte scese lentamente, in realtà non riuscivi ad accorgerti che fosse calata la notte, finché il buio totale non ti avesse avvolto. Il cielo era sempre grigio e nuvoloso e quasi mai si liberava.
La pioggia, però, non accennava a smettere, oramai sentiva le ossa gelate fin nel midollo, con gli abiti zuppi e le membra scosse da tremiti di freddo.
Il sergente lo chiamò a gran voce; il sergente era sempre arrabbiato, con la voce sempre alta che urlava, ma probabilmente era quella situazione. Scivolando nel fango ritornò alla trincea principale, quindi si mise in piedi, ma cadde a terra, aveva le gambe intorpidite e non riusciva a stare in piedi. Il sergente arrivò di gran carriera, gli prese una spalla con la mano robusta e lo tirò in piedi.
- Rapporto, soldato!-
- Nessuna attività nemica riportata.- Il sergente annuì, poi gli diede una pacca sulla schiena e lo mandò a rifocillarsi.
Zoppicando e appoggiandosi al fucile arrivò alla “mensa”. Era una fossa più larga, con una tenda tirata sopra. Sotto un pentolone bruciava un grosso fuoco, attorno ad esso quattro o cinque soldati che cercavano di riscaldarsi, mentre un sesto uomo dal fisico flaccido e molle sotto una casacca senza gradi riempiva le gavette dei soldati con una brodaglia che aveva lo stesso colore del fango.
Si avvicinò, prendendo una gavetta di metallo ammaccata da uno zaino con il suo nome targato. Il cuoco pescò dal barile la sbobba con un lungo ramaiolo di legno vecchio. Cercò di riscaldarsi avvicinandosi al fuoco, ma il risultato fu solo quello di scottarsi la faccia; prese la gavetta piena e si mise a sedere su una cassa di munizioni accanto ad un suo compagno.
Le mani cominciarono a scaldarsi contro il metallo caldo per la brodaglia. Prese un cucchiaio e comincio a mangiare, il sapore era indescrivibile ma era caldo e riusciva a dargli energie, d’un tratto sentì qualcosa di duro e croccante misto alla minestra, ma ingollò tutto senza pensarci. Si voltò verso la persona sedutagli accanto, voleva dire qualcosa, intavolare una discussione, erano più di dieci Ohm che non parlava con nessuno, escluso il sergente, ma non gli venne in mente nulla e tornò a mangiare.
-Questa brodaglia diventa sempre più buona ogni geociclo che passa.- gli fece l’altro. Lui non ricordava esattamente il suo nome, loro lo chiamavano il “poeta” perché citava versi e li componeva, una volta gli aveva chiesto che cosa facesse prima di arruolarsi, il poeta gli aveva risposto che era un’insegnante, lui aveva sorriso.
Sorrise di nuovo alla battuta del poeta, aveva sempre una battuta pronta, pareva che nemmeno quel paesaggio spettrale potesse far tramontare il suo ottimismo.
-Credo di aver appena mangiato un insetto- gli disse con aria disgustata. Il poeta sorrise –beato te! Io è molto che non mangio carne vera! E fortuna che era cotto!- lui dapprima non disse nulla, si voltò per continuare a mangiare, poi cominciò a ridere nervosamente, poi sempre più sguaiatamente, come se non riuscisse a trattenersi. Continuò a ridere fino a quando non si accorse che tutti lo stavano guardando in maniera strana, allora si calmò asciugandosi le lacrime con la manica umida.
-Fa piacere vedere che qualcuno apprezza l’umorismo in questa landa -. Lui stava per rispondere, ma il sergente arrivò e si intromise nella conversazione – Caporale, basta con le spiritosaggini, abbiamo ricevuto nuovi ordini!- il poeta scattò in piedi sull’attenti, era caporale è vero, ma nessuno se ne ricordava mai, tranne il sergente.
- Avete cinque Ohm, poi porterete avanti un attacco di sfondamento verso le prime linee nemiche!- il poeta annuì e il sergente sparì nuovamente tra i corridoi di terra. – Avete sentito ragazzi, andate a riposarvi, vi chiamerò io.-
Gli altri sodati annuirono. Lui finì rapidamente la sua sbobba e si avviò verso lo zaino.
Lo smilzo lo chiamò con un gesto, anche dello smilzo nessuno usava mai il suo vero nome, anche se tutti lo ricordavano, perché quando marciavano, con lo zaino sulle spalle, lo smilzo marciava avanti, accanto al poeta, e la targhetta del suo zaino penzolava sopra le teste di tutti.
Si avvicinò allo smilzo, che gli offrì una fiaschetta scura, la prese dalle sue mani secche e lunghe, tirò una lunga sorsata, il liquido caldo gli bruciò la gola, ma contemporaneamente avvertì un senso di leggerezza alla testa e le membra gli scaldarono. Giunse, trascinando lo zaino ed il fucile ad un piccolo rannicchiamento nella roccia, si distese sopra una lunga cassa di metallo e legno; era una cassa da morto, era l’unica cosa sulla quale ci si potesse sdraiare senza trovarsi il fango sin nelle mutande; non sapeva se fosse vuota o piena, ma in realtà, non lo voleva nemmeno sapere, la nicchia offriva un minimo riparo dalla pioggia, inoltre i soldati avevano installato delle tettoie, così da lasciare le nicchie relativamente asciutte. Sistemò lo zaino a mò di cuscino e si tirò la cerata addosso; sentì uno scricchiolio sotto il sedere, allungò la mano tirandone fuori un piccolo scarbog zampettante, stette ad osservare il piccolo animale mentre scalciava furiosamente in aria e lo osservava con il muso molliccio agitando le lunghe antenne; d’un tratto la mano si strinse quasi involontariamente schiacciando il guscio chitinoso, l’animale smise di muoversi con un fischiettio, si pulì la mano sulla parete di roccia umida.
Odiava gli insetti, erano tra le pochissime forme di vita che abitavano Char, a volte diventavano enormi: ricordò con disgusto il giorno in cui una cavolatta saltellante, grande come un bambino, era piombata nel barile del pranzo e avevano dovuto ucciderla a fucilate, per paura di avvicinarsi alle sue chele velenose. Pensando questo si addormentò, vinto dall’estrema stanchezza, non se ne rese nemmeno conto. Sognò enormi scarbog armati di fucili e bombe che gli si arrampicavano su per le gambe ed il colletto: esplosioni di sangue e carne. Poi un mostro dalle fauci enormi si avvicinò a lui pronto a mordergli la testa e a staccarla.
Si svegliò di soprassalto, urlando mentre lo smilzo lo scuoteva – Amico. Stai bene?- lui si asciugò la fronte – Dobbiamo andare – disse lo smilzo e si avviò con il fucile in mano e lo zaino con la targhetta sulle spalle. Lui si guardò intorno ed annuì al vuoto come se lo smilzo fosse ancora lì.
Prese lo zaino e legò la cerata avvolta stretta attorno a cinghie consumate. Mise lo zaino sulle spalle ed impugnò il fucile. Il poeta lo raggiunse e gli fece un sorriso; lui prese l’elmetto e vi sputò sopra, non sapeva perché ma doveva portare fortuna, glielo avevano detto al campo di addestramento, tutti sputavano sull’elmetto prima di indossarlo, se sputi sull’elmetto i proiettili non lo colpiranno, finora quel sistema aveva funzionato.
Lui e il poeta so avviarono lungo lo stretto corridoio –Ha smesso di piovere- fece il poeta sottovoce.- il cielo si schiarisce…- commentò poi. Lui sapeva che questo sarebbe stato male, avrebbero potuto vederli, era assurdo che l’unica volta che il cielo si schiariva, a loro servivano le nuvole e l’oscurità. La squadra si era raggruppata lungo la trincea 12: erano in quindici in quella squadra, all’inizio erano trenta; i sostituti non erano ancora giunti, ma lui dubitava che sarebbero mai arrivati, spesso ripeteva al poeta che sarebbero rimasti solo loro 2 di tutta la squadra, era una sensazione che avvertiva dentro di se, il poeta sorrideva e diceva – Beh almeno ci sarà più sbobba per noi.-
Rapidamente il poeta spiegò l’obiettivo della missione, nessuno fece domande, fare domande non sarebbe servito a molto. Uscirono silenziosamente in fila dalla trincea; strisciando sul terreno umido si disposero a ventaglio, l’uno a qualche passo dall’altro. Lui cercò di appiattirsi il più possibile, sentiva le rocce ed il fango contro il corpo infreddolito.
D’un tratto il poeta alzò un braccio rapidamente e rapidamente lo abbassò. Tutti si fermarono in attesa. Strinse il fucile fino a sbiancarsi le nocche, l’indice accarezzò il grilletto nervosamente, ma resistette all’impulso istintivo di gettarsi in avanti sparando.
Adesso si sentivano chiare e distinte le voci del nemico nella notte, sebbene lui non capisse benissimo la loro lingua riuscì a distinguere alcune parole ed a estrapolare il senso del discorso: stavano parlando di una ragazza, uno di loro la stava descrivendo, non capiva bene ma a quanto pare era una ragazza bellissima e uno di loro ne era molto innamorato ma non aveva il coraggio di dirglielo, l’altro aveva fatto qualche battuta, forse spinta, e poi, dopo alcune risate, sembrava che stesse dando dei consigli al camerata. Con la mente lui tornò a casa, agli occhi di lei, voleva rivederla, abbracciarla, baciarla.
Un rombo lo fece sussultare riportandolo alla realtà. Il bombardiere passò molto al di sopra delle loro teste, ma la carlinga affusolata e scintillante si stagliava chiara e ben visibile contro le nuvole e il cielo stellato. Poi sentì il fischio chiaro e distinto, piccoli oggetti cominciarono a cadere. La squadra si rannicchiò al riparo mentre le bombe fioccarono ed esplodevano sulle linee nemiche, si sentirono delle grida ed imprecazioni, poi dalle loro trincee ci furono parabole infuocate che finirono a breve distanza dalle loro facce. Il poeta, a quel punto, si alzò slanciandosi in avanti e gridando –ALL’ATTACCO!!- quasi all’unisono tutte le squadre si alzarono dai loro nascondigli e avanzarono, correndo verso la prima trincea nemica.
Fu come se l’avessero colpito con una frusta, si alzò con le sole gambe, impugnando il fucile saldamente e sparando all’impazzata; lo smilzo gli era accanto, che correva e sparava, lui si voltò un attimo per osservarlo: correva, con le sue lunghe gambe che compivano lunghe falcate, con il fucile proteso in avanti, non vide il proiettile che lo raggiungeva, né l’arma dalla quale era partito. Fu come se lo smilzo fosse andato a sbattere contro un muro di mattoni; si rovesciò all’indietro facendo cadere l’elmetto, i suoi capelli chiari sparsi al vento. Le gambe lunghe che scalciavano in aria al vuoto. Lui si avvicinò correndo al compagno. Aveva gli occhi sbarrati dal terrore e dal dolore, provò a chiamarlo ma lo smilzo non rispose, la camicia inzuppata di sangue, lo avevano colpito in pieno petto, nel cuore che pulsando in un ultimo spasimo schizzò il sangue fuori dalla ferita, imbrattandogli la faccia.
Staccò una granata dalla cintura dello smilzo e la lanciò in un foro nemico più avanti, dopo l’esplosione si lanciò in avanti poi, con un balzo, fu dentro la trincea. C’era fumo dappertutto, un odore acre, spari e raffiche, urla e caos. Tra il fumo una figura gli andò incontro, aveva un fucile in mano. Lui prese la mira e sparò due volte, la figura si accasciò urlando dal dolore. L’urlo dell’uomo era familiare, troppo familiare. Si avvicinò con cautela, poi lo vide in faccia e scoppiò a piangere. Il poeta se ne stava steso per terra con la casacca piena di sangue, lui si chinò sul caporale, cercando la ferita per tamponarla, ma quello gli sorrise – non…avevo…sputato…bene…- poi chiuse gli occhi.
Lui stette là in quella buca con il cadavere del poeta sulle ginocchia, piangeva e non riusciva a fermarsi, non riusciva a pensare a niente. Poi ci fu un urlo, e una sfera di metallo rimbalzò sul suo elmetto cadendo poco più in là. Non fece nulla; l’esplosione non la sentì nemmeno. La vista si fece solo più grigia ed annebbiata; mentre era steso per terra uno scarbog gli si avvicinò, poi cominciò a piovere di nuovo. Pioveva sempre in quel maledetto posto…-

martedì 28 aprile 2009

prima storia del primo poeta


Questa è la storia del primo poeta che ha raggiunto la superficie. Perdonate il tono presuntuoso ed ridondante, ma il mio menestrello così me l'ha raccontata. Io così ve la racconto.



Benvenuti, signori, adesso mi racconto
sono il poeta che per primo è defunto.
E se ascoltare volete la storia del poeta
alzate il sipario di sangue e di seta.

Sono solo un pazzo, morto sulla strada di Borgogna.
Ho cantato la canzone di Ginevra per poter dormire la notte in un letto pulcioso e sporco. L'ho cantata per un pubblico indolente. L'ho cantata soprattutto per lei, Ginevra, seduta tra i cortigiani. La sua treccia lunga e scura. Ho cantato per quella treccia.

Nelle corti mi prostituivo, vendevo le mie poesie, le mie canzoni. Per dormire, magari anche mangiare.
Ho pregato con la mia musica e con le mie storie gli uomini più importanti di Francia, li ho pregati di concedermi di restare, di non lasciarmi morire di freddo e di fame. Non so neanche più quanti conti o vescovi, obesi o magrissimi mi abbiano cacciato dal loro palazzo, non so più quanti di loro mi abbiano sorriso e concesso di restare. Per "allietare" le loro ore notturne, per altro già liete, con il mio salterio. Con la mia voce.
Non mi disturbavano le loro orgie, il vino, le risa delle donne. Vi ho partecipato anche io, almeno per quanto fosse concesso a qualcuno che è meno di un servo.
Quello che mi umiliava, che mi torturava era vedere che nei loro volti vuoti non c'era traccia degli occhi feriti di re Artù, nè del sangue di Orlando, non piangevano del dolore di Ginevra, non dormivano al tocco leggero di Mab. Non seguivano le navi in tempesta, o le ricerche dei cavalieri di cui cantavo.
Lasciavano le mie parole scorrere nelle orecchie, come chi ascolta una lingua straniera, un dolce ronzio confortante, una musica colla quale incorniciare vino e cibo.
Mi chiedevo come potesse la regina restare lì indifferente, come potesse riuscire a concentrarsi solo sulle mie parole.
Lo stesso fece il giovane Galaad. L'unica volta che lo vidi fu quando narrai la storia di sua madre, maga del lago. Tra gli abiti colorati, tra gli occhi ridenti e i boccali di vino lo vidi danzare da solo. Non si intristì nel vedere che la sua storia non appassionava gli invitati. Continuò a danzare con la sua dama invisibile, rivolgendomi qualche sorriso e qualche sguardo.
Dal mio mantello poi usciva Morgana, che mi aveva chiesto di riposare, nascosta a Merlino nella mia tasca. Volava scura sui volti dei convitati, troppo impegnati a masticare e a bere per accorgersi dello svolazzare tumultuoso dei capelli e del vestito della maga.

Una sera d'inverno ho visto Orlando morire. Nella cenere caduta dal camino, ai piedi di una donna. La mia voce moriva piano con lui, mentre guardavo il volto teso che mi pregava silenzioso di fermare il dolore. La donna accanto a lui si alzava accettando un invito.
Smisi di cantare, nessuno se ne accorse. Cercavo aiuto tra i ballerini. Gli unici occhi che incontravo erano quelli del vescovo padrone di casa, l'unico che non danzava, mi fissavano acuti. La donna rideva allegra, inclinava la testa all'indietro.
Sono corso al centro della sala, urtando gambe danzanti e impigliandomi in gonne di velluto. Sono corso per vederlo morire.
Ho pianto, reggendogli la testa, sporcandomi le mani di sangue.
Poi il vescovo dagli occhi neri mi si è avvicinato.

Vescovo dagli occhi neri- gli dissi- pensi davvero che non sappia che Orlando non sta morendo sul tuo bel pavimento di pietra? Che non mi accorga dell'insofferenza nascosta così bene dalla pietà nel tocco della tua mano? Tu pensi che io sia pazzo e che non me ne accorga. La furbizia che è rimasta intrappolata tra le tue rughe non ti ha aiutato stavolta.
Oh caro Vescovo, se la follia me lo permettesse ti bacerei gli anelli d'oro; oh, cari convitati, i vostri volti pieni di imbarazzo e di piacere. Piacere nel vedere la mia umiliazione. Cari, miei cari, vi dirò una cosa: è per voi che sono così, per le vostre bocche che si riempiono di cibo ogni volta che canto degli stenti di Galvano. E, ogni volta che i miei versi, come armati di coltello, una volta giunti alla bocca, quasi tagliano la lingua per la loro intensità, voi ridete, voi baciate, vi addormentate.
Però Ginevra piangeva. Non mi ha più abbandonato.
Non pensi, allora, vescovo, che è solo la follia che mi fa sopravvivere? Quella che tu chiami demenza mi nutre più di quanto non faccia il pane, mi stordisce più del vino, mi appaga più di una donna.
Non vi disturberò oltre signori, non disturberò oltre neanche voi poeti morti, qui in cerchio, in ansia per poter raccontare la vostra storia.

Sono solo un pazzo, morto sulla strada di Borgogna.

giovedì 16 aprile 2009

Racconto di Border

Border ha risposto al mio primo esercizio di stile e mi ha mandato questo racconto:

UN’ALTRA TAZZINA DI CAFFE’


E come ogni venerdì torno a impelagarmi nella serie di mezzi pubblici che separano casa mia dal call-center. Sono impaziente che venga sera perché finalmente possa godermi il week end in pace. La mia ragazza è fuori città da due giorni per lavoro, e ci starà fino a domenica sera. Ne sono dispiaciuto a metà, perché in fondo mi risparmia lo stress di scervellarmi alla ricerca di un qualche posto dove andare a mangiare, passeggiare, stare insieme… le solite cose da fidanzati, insomma. Mi godrò un fine settimana da single, col solo rimpianto di non poter dormire con lei la notte. Forse davvero mi sono innamorato, se ho smesso di pensare così tanto a quel che succede prima di dormire, e se non penso altro che allo svegliarci vicini e allo stringersi dolcemente per darsi il buongiorno. Chissà…
Entro nel Quick Bar, la caffetteria che è subito fuori la stazione, e vista l’insolita popolazione dell’ambiente guardo l’ora. Quindici minuti di ritardo, dannato treno. Ecco perché c’è più gente del solito. Non me ne dispiaccio poi così tanto, scendo sempre dall’autobus qualche fermata prima della mia destinazione, per farmi un tratto di strada a piedi. Stare seduto ore in un call-center fa diventare terribilmente sedentari e comincia a vedersi un po’ di pancia. Stamani mi sa che dovrò rinunciare e farmi tutte le fermate in autobus.
Posso rinunciare a tutto fuorché al mio caffè, altrimenti è dura reggere fino alle nove di sera.
Mi infilo nella calca del piccolo bar – se ce tanta clientela, significa di certo che non sono solo io ad apprezzare questa caffetteria – e mi incodo nella fila che procede a passo di processione verso la cassa. Pago i miei ottanta centesimi e ritiro lo scontrino avviandomi verso il muro umano che mi separa da Occhio-di-falco.
Occhio-di-falco, che in realtà si chiama Vincenzo, detto Cenzino, è l’unico barman della caffetteria. E’ strabico, ma di uno strabismo che dire singolare è poco. Le pupille sono perfettamente allineate, cambiano solo angolazione: quando la destra guarda dritto, la sinistra guarda a sinistra, quando la sinistra guarda dritto, la destra guarda a destra. Ma dico, sembrano fatte apposta!!! Una volta son dovuto uscire di fretta per non ridergli in faccia: lo stavo immaginando ad un incontro di tennis!
Arrivo finalmente al bancone in marmo e poso lo scontrino con una moneta da dieci centesimi di mancia a fare da fermo. C’è chiasso, c’è chi mette fretta, fatto sta che all’improvviso un tamarro si affaccia sul bancone, spalla a spalla con me, e succede il putiferio: “Uè, barman, i tuoi occhi hanno litigato?”
Nello smadonnìo che segue, Cenzino Occhio-di-falco da il meglio di sé, sfoggiando un vocabolario di bestemmie che vanno da quelle del periodo di Masaniello a quelle un po’ più postmoderne, ma intanto il tamarro ha avuto quello che voleva: ha attirato la sua attenzione ed è stato servito subito. In questo modo Occhio-di-falco se lo toglie dalla “vista”.
Io, girato di lato per il disagio, non assisto alla scena, ma così mi perdo il gesto meccanico che fa Occhio-di-falco nel prendere scontrini e mance, servire il caffè solo al tamarro e allontanarsi verso il polo opposto del bancone.
Vorrei protestare ma è inutile, la macchina del caffè fischia e rumorosamente in una brocca piena di latte: Cenzino sta per servire un cappuccino a una signora truccata all’inverosimile. Capisco che è lei la destinataria del cappuccino dal fatto che tiene lo scontrino tra indice e medio. Chi passa per il Quick Bar conosce questo muto linguaggio: scontrino sul bancone uguale caffè; scontrino tra le dita uguale varie ed eventuali. Ma tanto in quel bar ci si viene solo per il caffè. Il cappuccino di quella signora resterà un episodio isolato.
Mi rassegno ad aver perso ottanta centesimi ( più dieci di mancia ) e mi incodo di nuovo. La fila ha scalato marcia, si procede a passo di formica.
Arrivo alla cassa, pago e mi avvio al bancone. Davanti a me ci sono due omaccioni molto alti, forse fratelli, perché molto rassomiglianti, che parlano tra di loro di calcio. Proprio quando siamo nei pressi del bancone mi squilla il cellulare. E’ mia madre.
“Pronto ma’ ?”
“Tonì, che guaio!!!”
“Che è stato?”
“Uno stronzo tutto ubriaco, qua giù al cortile…”
“Embè…?”
In quel mentre i due omaccioni arrivano al bancone. Parlano in modo molto concitato, quindi mi tengo distante per sentire meglio mia madre al cellulare, e intanto spingo il braccio tra loro e poggio scontrino e altri dieci centesimi sul bancone.
“Ha tamponato la macchina!”
Per un attimo cado nell’abisso pensando alla mia auto – che ha l’unico pregio di avere quattro ruote ed un motore che funzionano ancora bene insieme – resa ancora più malandata da un disgraziato incidente, per giunta da parcheggiata!!! Poi il panico: “La mia?” mi accerto.
“La tua.”
“Ma era parcheggiata!”
“Lui era ubriaco…”
“Ha tamponato avanti o dietro?”
“Di lato.”
“Ehhh?!?!?” comincio a pregare perché sia uno scherzo. Ma conosco mia madre, non riuscirebbe a farmene uno del genere, non è una brava attrice.
“Ha sfondato la portiera del lato guida. È tutta dentro l’abitacolo ora…”
Sono una cosa sola con il panico, ora. Tuttavia provo a pensare positivo. Può essere un buon momento per cambiare macchina.
“Gli avete preso i dati dell’assicurazione?”
“Quest’è il guaio, Tonino. Non era assicurato…”
La rabbia comincia a montare, tuttavia riesco a controllarmi.
“Vabbè mamma… Mo ci mettiamo in mano a un avvocato. L’hai presa la targa?”
“…”
“Ma’…?”
“La targa, Tonì?”
Intuisco le cose come sono andate. Mi aggrappo alla speranza: “Prendigli la targa, ma’!”
“Ma… se n’è già andato…”
Avvilito e nervoso, chiudo la conversazione senza neanche salutare. Tiro un respiro forzato ed espiro, pensando al caffè. Ma girandomi al bancone vedo che non ci sono più i due omaccioni e neanche c’è una di caffè fumante ad aspettarmi.
Facile capire come siano andate le cose: Occhio-di-falco ha visto due scontrini e, senza leggere, ha dato per scontato che fossero entrambi per un solo caffè, mentre invece lo scontrino dei due omaccioni era per due… Vorrei avere uno specchio per sputarmi in faccia.
Ma ormai è questione di principio: rifaccio la fila per la terza volta, fila che ora procede a passo di formica sciancata. Arrivato alla cassa, dato che ho finito le monete, tiro fuori una banconota da venti euro, l’ultima che mi è rimasta. Questi cornuti del call-center si fanno aspettare prima di scucire i soldi a fine mese, e tu neanche hai il diritto di protestare, dato che il contratto ti scade a breve. A meno che tu sia intenzionato a non rinnovarlo.
“Spiacente, non ho il resto.”
“Che???”
“E’ inizio giornata…”
E’ l’inizio di una giornata di merda che si è presentata con tutti i sentimenti al posto giusto, vorrei rispondere.
“E poi ho appena cambiato un cento euro…”
Afferro esasperato un pacco di biscotti che sta su un ripiano – biscotti scaduti probabilmente da quando mia nonna aveva le treccine, dato che sono anni che li vedo sempre lì. Sono stupidamente e ostinatamente deciso: voglio il mio caffè!
Con i biscotti il cassiere riesce a darmi dieci euro e trenta di resto, raccattando un cinque euro di carta e cinque euro e trenta in monete miste: due pezzi da un euro, quattro da cinquanta centesimi, sei pezzi da venti e uno da dieci. Mi ficco tutto il danaro in una tasca. Sembra che sono andato a scassinare una cassetta delle offerte in chiesa.
Mi avvio verso il bancone con il pacco di biscotti sotto l’ascella, sperando che stavolta Cenzino non mi faccia un’altra sola. Stavolta tengo lo scontrino tra le dita, per essere sicuro che mi serva. Così è, e mentre avvia la macchina per il caffè mi piazza sottotazza, cucchiaino e bustina di zucchero sul bancone, proprio davanti a me. Tiro un sospiro di sollievo.
Poi, di nuovo il cellulare. E’ Maria, la mia fidanzata.
“Ciao amore!” rispondo con un tono solare. Quando sono a telefono con lei non posso non esserlo, anche quando le cose vanno male. Non so com’è, mi vien fuori il sorriso come il sole che sorge all’alba: in modo del tutto automatico e naturale.
“Ciao…” dall’altra parte non c’è solarità… pare più che altro foschiità.
“Ehi, cos’è quel tono? Guai a lavoro?”
“Ma che lavoro, Tonì…”
“…”
“…”
I silenzi dicono molto. Ora la foschiità contagia anche la mia voce: “Che intendi?”
Alle mie spalle sento che Cenzino posa la tazzina sul piatto, ma lo avverto distrattamente.
“Antonio… – sudo freddo, quando mi chiama col mio nome di battesimo è perché le cose non vanno affatto – … io sono con un altro...”
La mia voce si permea di nebbiità: “Come?”
“Non ti eri reso conto che ero diversa, negli ultimi tempi, con te?”
Negli ultimi tempi? E che era successo mai?! Non si era fatto più l’amore così spesso, ma io mi sentivo un dio solo a tenerle una mano!!! Pensavo fosse perché ci eravamo resi conto che non eravamo solo fisicità, l’uno per l’altra. Che diamine era successo negli ultimi tempi?
“Ma…” la mia voce arriva da lontano, dal buio recondito. Voce di buità.
“Ti lascio, Antonio. Sei una cara persona e non ti meritavi che te lo dicessi al telefono, ma non potevo più tenermi tutto questo dentro… Addio…”
Tut-tuuuuut… Tut-tuuuuut…
Riemergo dal buio e metto a fuoco il bar attorno a me. Con dei movimenti automatici la mia mano ha rimesso il blocco tasti e ha infilato il cellulare nella tasca dei pantaloni. Il pacco di biscotti scivola dalla mia ascella e cade a terra, finendo schiacciata dagli avventori.
Mi giro verso il bancone e trovo solo un sottopiatto e una bustina di zucchero aperta. Spunta un braccio alla mia sinistra che posa una tazzina di cui restano solo i fondi, del caffè, assieme a granuli di zucchero semisciolti e al cucchiaino. La mano si ritira, e io la seguo con lo sguardo. Appartiene a un tizio sporco, malvestito, barba di dieci o quindici giorni e capelli lerci che mi guarda con aria di chi me l’ha fatta, mi fa un cenno di saluto dicendo: “Grazie del caffè, dottò!” e se ne esce soddisfatto dal bar.
Comincio a contare.
…uno…due…tre…
Non posso farlo, non qui…
…quattro…cinque…
Voglio urlare, ma non devo…
…sei…sette…
Non devo, ma…
..otto…
…ma è più forte di me. Non posso ma…
…nove…
…DEVO urlare!!!
Con quanto fiato ho in corpo e con tutta la forza che mi rimane nei nervi sparo dal profondo di tutto me stesso quell’unica vocale rabbiosa che mi da sfogo, arrivando a piegarmi sullo stomaco per lo sforzo. Ed esce forte, maiuscola, disperata ed esasperata, frustrata da una giornata che è soltanto agli albori.
Finisco singhiozzando. Mi guardo intorno. Il bar è paralizzato, una polaroid di stupore, incredulità e meraviglia. Neanche una mosca a turbarne il silenzio di cimitero. Cenzino Occhio-di-falco, dietro al bancone, con due tazzine in mano sospese a mezz’aria, mi fissa a bocca aperta. Ora ha tutti e due gli occhi dritti in avanti.
Mi raddrizzo e mi avvio di nuovo alla cassa percependo distrattamente una lacrima che mi scivola giù per il naso.
Stavolta salto la fila. Quelli che sono avanti a me si scansano vedendomi arrivare. Riesco a pescare una moneta da un euro dalla tasca al primo colpo. Forse un segno che il peggio è passato e che ora non può andarmi che bene.
“Un’altra tazzina di caffè…” dico, posando la moneta sul piatto per il resto.
“No.”
La risposta mi arriva, cortese ma ferma, dal cassiere.
“…”
Vorrei poter avere la forza per chiedere anche solo ‘perché’, riuscire a pronunciare quelle sei lettere, ma le mie labbra non riescono ad articolarsi, e la voce si rifiuta di uscire.
Intuendo il mio pensiero, il cassiere mi dice: “E’ già alla sua quarta tazzina. Troppo caffè la rende nervoso…”

lunedì 13 aprile 2009

poeti morti


Strisciamo piano, fuori dalla nostra bara, ne rosicchiamo il legno scadente, le schegge si incastrano tra i denti, si conficcano nelle labbra. Ma noi non sanguiniamo. Siamo morti.
La terra si infila sotto le unghie, ma solo a quelli di noi che ancora le possiedono, gli altri hanno solo ossa. Più difficile scavare con le ossa.
Abbandoniamo il nostro riposo buio, odoroso di terra e muschio, affollato di insetti e vermi. Risaliamo al freddo, al cospetto di quella che un tempo chiamavamo oscurità, notte, ma che adesso, con le nostre pupille incerte chiamiamo luce accecante.
Solo quando finalmente l’ultimo corpo, l’ ultimo osso sono arrivati in superficie, allora e solo allora, sediamo in cerchio. Iniziamo a raccontare le nostre storie.
Seguirà, spero a breve, la storia del primo morto. In questo che spero diventi una sorta di grottesco Decamerone.
Per chi volesse unirsi alla compagnia e raccontarci la storia di quando era vivo, può spedirla a penelopesilver(at)gmail(dot)com

domenica 5 aprile 2009

Piccolo Sclero

Dopo una settimana di silenzio stampa, di pensieri veloci e idee incostanti, ho pensato di alleggerire i lugubri toni dei poeti morti.

Bionda signorina
non sono ballerina
mi definisco semplice
del mio destino artefice
e poi aristocratica
mediatica
fanatica
di grossi palinsesti
voci senza testi.
Fionda palpitante
non sono una cantante
sempre son solare
il prossimo so amare
ho cari i miei valori
bollori
tricolori
vivo tra i merletti
arsenico e confetti.
Ronda benefattrice
io non sono un'attrice
tanto voglio viaggiare
perché mi piace il mare
ma non so di preciso
dov'è che sia Treviso.
Iraconda tronista
io non sono un'artista
cerco un tipo erotico
dispotico
ipnotico
cerco un liquido amniotico.
Amo la mia famiglia
stoviglia gozzoviglia
che crolli la Bastiglia
vorrei tanti bambini
giuro che non conosco
Ettore Petrolini

domenica 29 marzo 2009

Primo Esercizio di Stile


Ho un gioco da proporre ai miei poeti cadaveri. Vi do una frase: "one more cup of coffee 'fore I go ". Una frase di Bob Dylan, ma anche se conoscete il resto della canzone cercate di ignorarlo. Voglio che immaginiate ex novo cosa potrebbe voler dire, in che situazione la si potrebbe usare. Voglio che raccontiate una storia
su questa frase, che scriviate una poesia. Io metterò il primo racconto.
Se vi viene qualcosa mandatemelo per e-mail.

Un'altra tazza di caffè

L’umido lo ha ferito appena sceso a terra, piccoli aghi infilati nella carne, nei muscoli, frecce lanciate con precisione, non hanno mancato nessun bersaglio.
I marinai non sentono l’umido sulle navi- è il mare che li protegge-
non sentono gli anni sulle navi – è il mare che li tiene in forza.
Il primo passo sulla terra, che sia un molo di legno, sabbia dei tropici, asfalto di città, il primo passo rompe l’incantesimo, risputa loro addosso gli anni e i dolori che hanno evitato, da cui sono stati momentaneamente graziati.
Il marinaio entra nel bar del porto, cammina sul pavimento di legno, lo calpesta con attenzione, con cura, sembra concentrato nel mettere un piede davanti all’altro. Non ha più i piedi adatti a questo legno che sta fermo, che non ha una sua forza, un suo movimento, non ha più i piedi per la terra.
Nelle narici solo l’odore di salsedine - l’unico che ormai può sentire- perfino il rum – come ogni marinaio immaginario beve rum - ha perso il suo odore. Così, coi piedi malfermi e le narici troppo piene di sale e alghe, siede ad un piccolo tavolino di formica laccato, con le poltroncine rosse ben chiuse nella plastica. Guarda in alto verso una piccola cameriera bionda con una divisa dello stesso rosso delle poltroncine e un cappello da pirata.
< Caffè, signore?>
< Non posso più odorare il rum, quindi neanche il caffè. Non è poi che mi dispiaccia troppo sentire solo l’odore di mare > le spiega paziente < ma non capisco a cosa serva bere senza poter odorare.>
< Non abbiamo rum, signore.> Senza aspettare una risposta gli versa qualcosa nella tazza, qualcosa che il marinaio prende per pece bollente. Bisogna sempre avere pazienza quando si tratta di persone di terra.
< Non ho mai bevuto il caffè. Ho bevuto per tutta la vita solo rum, e acqua di mare. Non so neanche se mia madre mi abbia mai allattato. Non credo però.>
La piccola cameriera gli chiede come sia possibile non aver mai bevuto altro che rum e acqua di mare. La piccola cameriera pensa a tutte le calorie del rum, e alla ritenzione idrica che deve portare l’acqua di mare.
< Anni fa venivo spesso in questo posto, allora non lo servivano il caffè, poi, per molto tempo non sono più sceso a terra. Mi piaceva questo posto, allora il legno era marcio, credo un po’ verde, ma non c’era mai abbastanza luce e non ero mai abbastanza sobrio da distinguere i colori. In effetti non sono proprio vecchio. Ma è molto che la mia giovinezza è lontana.> La cameriera lo guarda silenziosa, non osa allontanarsi.
< C’erano donne bellissime, non che tu adesso non lo sia, ma loro erano diverse. Diverse l’una dall’altra, ogni loro abbraccio aveva una morbidezza ineguale, ogni loro bacio un gusto proprio. C’era il sapore del rum, il suo bruciare lento la gola, pizzicare le narici, il suo alleviare i dolori. E c’erano i racconti degli uomini di terra, storie a cui nessun marinaio riusciva a credere. Storie che parlavano di uomini, storie che parlavano di amori lunghi vite intere, che parlavano di inferno, di paradiso. Storie che se avessi ascoltato sul ponte della nave avrei trovato ridicole, ma in questo posto ascoltavamo, credevamo e loro ascoltavano e credevano.
Per me tutto questo era “Terra”, il grido che riempiva la bocca dei passeggeri della mia nave, che io non riuscivo a capire. Quel grido riempiva la mia testa e le mie orecchie solo qui, con quelle donne, col marcio del legno, col rum profumato, colle storie di terra. Barcollavamo sempre, nell’entrare e nell’uscire, avevamo il mal di terra, e il mal di rum.
Ho smesso di venire qui quando ho capito che stavo invecchiando.
Quando l’aria del porto ha cominciato a torcermi le nocche e le ginocchia, quando le stelle e il sole si sono offuscati, e la mia memoria è diventata più forte. Allora ho smesso di scendere a terra. Lo fanno in molti, vogliono morire in mare, uccisi da un’onda, forse da un tritone, affogare per seguire il canto di una sirena, anche sfracellarsi su uno scoglio… Meglio così che sbriciolarsi per la vecchiaia.
Un giorno ospitai sulla mia nave un poeta. Mi raccontò che gli occhi dei vecchi si riempiono di rugiada, che le loro bocche sbavano, che il pensiero vaga. Ospitai anche un altro poeta, uno cieco, ma successe molto tempo prima e quasi non lo ricordo più. Quando ho iniziato ad invecchiare ho deciso che non volevo decompormi durante la vita, e sono rimasto in mare. Ho fregato la vecchiaia.
Grigia Signora che
accarezza le guance della gente,
alza un braccio
di ragnatele,
lascia impronte
di polvere scura.
Non nascon fiori dove cammina,
ma bianche mani che tingon capelli,
gli occhi diventano acquosi di brina
chiare e solcate diventan le pelli.
Non ho mai avuto, però, l’intenzione di fregare la morte. Non è possibile, prima o poi viene a prenderti. Ha cercato e trovato amici e nemici. Ho sentito le sue mani artigliare i piedi di un compagno di vedetta con me la notte, ho sentito la sua falce abbattere uomini alla mia destra e alla mia sinistra. Aspetto colla rassegnazione di chi si sa il prossimo. Ma sono secoli, forse millenni che mi ignora.>
Beve l’ultimo sorso di caffè, fa una smorfia alla cameriera che si è seduta di fronte a lui. Per essere più attenta ha sollevato la benda nera dall’occhio destro.
< Ma allora perché sei sceso a terra?>
< Per beffeggiare la vecchiaia, per deridere gli uomini di terra raccontando la mia storia. Perché io vivrò ancora a lungo sulla mia nave, io non perderò mai le forze e canterò con la mia ciurma.
Vecchi rugosi cantate da soli
l’ultimo canto
cigni accasciati non più bianchi, brillanti
ma grigi cadenti, quasi
affogate nel vostro letame e
vi consolate delle poche stelle che
gli occhi cisposi posson guardare.
Presto dovrò tornare alla mia nave, l’unico luogo in cui tutti sentono solo l’odore del mare. Ma prima dammi un’altra tazza di questo schifo di caffè.>

venerdì 27 marzo 2009

Saxophone Street Blues

Hector Luis Belial,
Las Vegas edizioni

Se io mi definisco una tessitrice di storie, Hector Belial è un assassino di storie, un killer da film splatter che crea la sua prosa con una sega elettrica, con tavoli bianchi da chirurgo e magari con una mannaia.
Con uno stile che farebbe invidia a molti scrittori, o pseudotali famosi, Belial spezza frasi e situazioni, poi li ricuce, tra le sue mani diventano carne viva e con la stessa impressione li sente il lettore.
Il romanzo si presenta come un thriller dall’aria pulp, sia la copertina che il quarto di copertina evocano immagini, colori e odori di Harlem o Queens, o almeno di una Harlem o di una Queens percepita dagli europei attraverso film e letture. Basta leggere, però, le prime pagine per vedere quelle immagini farsi più sfumate, sciogliersi nei deliri di autore e personaggi, regalando una visione distorta e originale di una storia che altrimenti sarebbe piuttosto usuale. Il filo conduttore è Saxophone Street, dove si muovono le ombre dei personaggi e che, più che teatro di storie, diventa essa stessa personaggio dotato di volontà propria, assumendo un ruolo principale.
Belial è vittima e carnefice del lettore, al quale pare non riesca a rinunciare, ma che trascina a fondo, nelle proprie frustrazioni, nel proprio mondo violento e onirico, mondo che diventa tattile in un gioco di immagini originali, citazioni e suggestioni.
Se continuassi a parlarne però, probabilmente direi troppo, toglierei il gusto al lettore, quindi mi limiterò a fare i complimenti a Hector Belial e a dargli il benvenuto nella società dei poeti morti.

giovedì 26 marzo 2009

Saviano

Noi, società di bugiardi poeti morti, che usiamo nomi falsi per ricoprire storie false, ringraziamo Roberto Saviano. Ha usato il suo volto vero per raccontare, con parole bellissime, una storia vera. Per fare questo ha perso tutto quello che aveva, non gli è stata riconosciuta neanche la capacità di scrivere... Noi, società dei poeti morti, siamo vicini a Roberto Saviano.

venerdì 20 marzo 2009

Primo Racconto



Lascio andare il primo racconto di questo blog. Lo lascio partire, spero, verso gli occhi di lettori, altrimenti mi basta metterlo "in piazza", allontanarlo un po' da me. E' stato un racconto piuttosto snervante da scrivere, che mi ha coinvolta più di quanto gradissi, per questo l'ho scelto come il primo da fare partire.
Lasciandolo alla lettura diventa qualcosa di concreto e distante e non più solo delirio privato, solo così riuscirò a riconoscerlo.

ELISABETTA


Elisabetta, nome di regina, corpo di barbona.
Tutto quello che riesce a dire di sè. Tutto quello che riesce a pensare. L'abbiamo sempre osservata, non l'abbiamo mai perdonata. Le abbiamo puntato contro l'indice destro che lei non ha più, solo per il gusto di ricordarglielo.
Elisabetta, nome di regina, la regina vergine.
Non ha mai amato, non gliel'abbiamo mai concesso. Noi, che accompagnamo ogni suo sguardo, che giudichiamo ogni suo gesto, noi, immaginario pubblico da televoto, noi, personale auditorium invisibile, non le abbiamo mai concesso di ritenersi talmente importante da amare qualcuno.
Lei ci ha creati solo per questo, per ricordarle che la sua brutta faccia, il suo muoversi sgraziato, i suoi occhi vuoti non potranno mai essere amati. E' facile dimenticarsene, estremanente facile se si è stupidi come Elisabetta, ha bisogno di un auditorium invisibile che le ricordi chi è.
Così, con le forme di una scultura di Botero, Elisabetta, mano senza indice, con l'espressione di un volto di Schiele, si avvia verso l'unico lavoro che può fare: la serva. La colf, o collaboratrice domestica, al massimo cameriera, dice Elisabetta, serva - le rispondiamo noi.
Serva dice Elisabetta.


L'appartamento è luminoso, caldo, le concediamo di rilassarsi un poco, le concediamo un sorriso, ma uno solo, ogni volta che entra nell'appartamento di via Torino. Lui lavora seduto ad un vecchio tavolo, un tavolo antico - la correggiamo noi - di quelli che tu non potrai mai avere - aggiungiamo. Comunque lui sta lavorando, il portatile appoggiato sul tavolo antico, la schiena un po' curva, i ricci scuri. Forse Elisabetta vorrebbe sorridere, ma non le possiamo concedere un altro sorriso.
Lui le spiega cosa deve fare, non si gira a guardarla, le spieghiamo che è per via del dito, a tutti fa schifo un dito mozzato, un moncherino. E' anche per via del corpo che non la guarda, a tutti fa schifo un corpo come il suo.
Elisabetta, nome di regina, lavoro di serva.
Pulisce il pavimento, lo lava, respira con la bocca aperta, anche se noi le ripetiamo che non si fa, che è brutto da vedere. Suda, anche se noi le ripetiamo che non si fa.
Carica i piatti nella lavastoviglie, sono tanti, forse lui ha dato una cena.
Una cena a cui tu non potresti partecipare.
Quando sta per andare, lo saluta. Ma lui la ferma, le si avvicina, i pantaloni di velluto consumati sulle ginocchia, i calzini bianchi, le stringe la mano. La mano senza dito. Non solo, ma la guarda negli occhi. E' perchè gli fai pena, le diciamo subito noi, povera stupida Elisabetta, gli fai talmente pena che supera lo schifo che gli fa il tuo corpo e ti tocca.
Scende le scale non ci ascolta e fa un altro sorriso.


Notte. Nel letto la guardiamo mentre si rigira, vestita di un pigiama sintetico, i capelli arruffati. La guardiamo mentre pensa ai calzini bianchi di lui, a come scivolavano sul parquet a spina di pesce, che bell'effetto. La guardiamo mentre ripensa ai suoi pantaloni consumati, pantaloni da casa, Elisabetta non ha mai avuto pantaloni da casa: quello che indossa in casa lo indossa fuori, per lei non cambia molto,ed è giusto che non le interessi, nessuno la deve guardare. A parte noi.
Pensa alla mano di lui, non ha avuto esitazioni a stringere il moncherino, non ha avuto quel ribrezzo che ci si aspetta da chi tocca qualcosa di mutilato, di informe.
A questo pensa Elisabetta. Sola in un letto in cui non è mai entrato nessuno, in cui non entrerà mai nessuno oltre lei, oltre noi.
Elisabetta, nome da regina, regina innamorata.


Via Torino, ancora notte. Il portone scuro è chiuso. Te l'aspettavi aperto? Pensavi davvero che anche lui avrebbe cercato di raggiungerti, di parlarti, o che ti avrebbe aspettato con tanta ansia da aprire il portone?
Con la mano buona premi il bottone d'ottone del citofono, quanta insistenza per una che va al patibolo, ti diciamo noi. Perché è questo che succederà, lui ti riderà in faccia, ti caccerà a calci fuori dal suo bell'appartamento, anzi, niente calci, non lo toccherà più un corpo come il tuo, neanche con le scarpe, ma ti pregherà di uscire, di non tornare più. Cos'è questo se non un patibolo?
La voce di lui è roca, di sonno dice Elisabetta, forse di sesso diciamo noi, forse ha lasciato una donna magra e profumata, sotto una coperta calda, per rispondere al citofono che tu hai suonato.
Le apre il portone.
Elisabetta, nuda sotto il cappotto, ha salito le scale di corsa, con tutta la velocità che le sue gambe le concedono, la bocca aperta per afferrare più aria possibile, il moncherino al petto, per trattenere il cuore al suo posto.
Lui l'aspetta, tiene la porta con una mano, con diffidenza, le sbarra il passaggio nell'appartamento. E' normale, diciamo noi, una persona come te non si fa entrare in casa di notte, non si dovrebbe fare neanche entrare in casa.
Elisabetta nome di regina, corpo di barbona.
Si è sfilata il cappotto, gli offre il suo corpo, mutilato, pallido.
Carne al mercato, ridiamo noi. Quello è il corpo che nessuno ha mai visto, a parte lei, a parte noi, è quello che Elisabetta vuole mostrare. Si libera dagli sguardi degli altri, dai proprii, con un unico movimento, lasciando cadere la sua copertura, corazza protettrice della bruttezza.
Nuda sul pianerottolo, nuda di fronte a lui. Lui è sorpreso, forse disgustato? Lascia la porta, si tira indietro. Elisabetta, solo allora, sente la vergogna che risale calda il suo corpo, parte dai piedi, passa per il moncherino, si sofferma sul collo, le inonda la faccia.
Noi siamo lì, non diciamo nulla, non c'è nulla da aggiungere al suo patibolo. La guardiamo, come al solito, ma la guardiamo e basta.
Lui raccoglie il cappotto da terra, le si avvicina per farlo, le sfiora le ginocchia con i capelli, le poggia il cappotto sulle spalle, la fa entrare in casa. La vergogna rallenta il suo pulsare sulle guance, allevia il formicolio al naso.
La guarda e le sorride, le spiega che non è attratto da lei, glielo spiega abbottonandole il cappotto, poi, però le dice che gli piace averla vicino, gli piace parlarle. Le carezza i capelli dolcemente, la fa sedere sul divano.
Elisabetta ora piange, piange felice, noi scivoliamo via dai suoi occhi, bagniamo la lana del cappotto. Pubblico giudicante ridotto al silenzio di gocce d'acqua.
Elisabetta nome di regina, almeno hai trovato un amico.

giovedì 19 marzo 2009

L'Arte per l'Arte?

Credo che l'arte e la letteratura non debbano avere per forza uno scopo, un fine. Mi è sempre piaciuto guardarle e sentirle come suoni e immagini, storie e parole, senza sentirmi in dovere di riflettere su una morale, di trarne un insegnamento. Con questo non voglio dire che sono sbagliati i collegamenti che si fanno dopo aver ascoltato una storia, e che magari non ne debba nascere una discussione, ma che non si possa leggere solo per imparare, ma anche per il banale gusto di sapere come va a finire. Sottolineo l'importanza della storia, della trama, ma anche l'importanza di farsi trasportare dalle parole senza voler capire a fondo il messaggio dell'autore.
Sono più lettrice che scrittrice e, ultimamente, sto tentando di diventare una tessitrice di storie. Storie appunto, non morali, ma anche parole, suoni, che stiano bene insieme anche se il loro significato è orribile, se il loro senso è crudele.
Ovviamente è una mia opinione e, se credete che l'arte debba essere fatta con l'intento di dare un insegnamento fatemelo sapere... Comincerò a intrecciare i fili delle opinioni.

Inoltre, quando parlo di libertà di espressione purché letteraria, intendo che in questo spazio vorrei un linguaggio letterario e tematiche letterarie. Ma non è un ordine, mi rendo conto benissimo che anche il mio linguaggio letterario è scemato dall'inizio del post, è solo un immagine di una grotta dove un gruppo di ragazzi parlano in versi e si raccontano storie. Questa è l'aria che vorrei respirare in questo blog.

martedì 17 marzo 2009

società dei poeti morti


Società dei poeti morti o dead poets society: è un film tradotto in italiano come "L'attimo fuggente" , ma è anche un'idea. L'idea di un luogo, anche se solo virtuale, dove sia possibile riunirsi per raccontare storie, scrivere poesie, parlare di letteratura.

Libertà di espressione, purché letteraria.
Giochi di citazioni, tra cinematografia, poesia, musica. Ma soprattutto il rispetto e l'amore per la "parola", la cura del significato quanto il piacere del significante.
Così, per quanto ancora non mi sia chiaro lo sviluppo che avrà questo progetto, lo lascio partire, perché non c'è altro modo di scoprirlo, ma soprattutto perché è una voglia indefinita, ma inespressa da troppo tempo.
Io intanto resterò qui a intrecciare e sciogliere i fili dei racconti, delle poesie, dei commenti, miei e di tutti quelli che vorranno mandarmeli.
Penelope