lunedì 4 maggio 2009

Racconto di Nashir Dakkar

Il principe Nashir Dakkar mi ha mandato questo racconto, la storia del suo poeta morto.


Prima di cominciare a leggere, alcuni chiarimenti dell’autore:
luniciclo: circa 27 giorni e dodici ore
geociclo: 23 ore e 45 minuti
Ohm: 57,34 minuti
micrOhm: 44,56 secondi
scarbog: piccolo insetto simile ad uno scarafaggio ma senza le ali
cavolatta: grosso animale simile ad un artropode, possiede dieci paia di zampe, quattro di queste sono tre volte più grosse delle altre e permettono alla cavolatta di spostarsi rapidamente sul terreno compiendo prodigiosi balzi, alcuni di questi animali possono raggiungere le dimensioni di un’ automobile.

Sapeva che Char era un pianeta importante, cruciale, o sapevano bene tutti; lo ripetevano tutti i giorni, doveva essere importante per forza. C’erano 12 battaglioni schierati e trincerati solo in quel settore.
Non sapeva esattamente quanti uomini fossero, ma 12 battaglioni erano parecchi e dovevano essere qualche migliaio. Fanti ammassati l’uno accanto all’altro in file interminabili. Dovevano difendere la Miniera, ma lui della miniera aveva visto solamente delle luci in lontananza.
Era in una delle prime linee, e non si spostava da lì da due lunicicli.
Era il suo turno di guardia, sdraiato per terra, scrutava davanti a se, un paesaggio brullo e grigio senza soluzione di continuità.
Se prendeva il binocolo, riusciva a scorgere gli elmetti del nemico, infossati in trincee come lui, a sole poche centinaia di metri. Sentì una goccia fredda che gli colpiva la mano.
Su quel maledetto pianeta pioveva quattro geocicli su cinque. Strinse le mani attorno al fucile tentando di scaldarsi, mentre si tirava addosso una cerata, ancora mezza per la pioggia precedente.
Erano passati circa trenta microOhm, lui, sotto la pioggia, non si era mosso, ma il terreno si era trasformato velocissimamente in una fanghiglia fredda e appiccicosa. Non riusciva a capire come un pianeta, sul quale pioveva così tanto, poteva essere così deserto e spettrale.
La notte scese lentamente, in realtà non riuscivi ad accorgerti che fosse calata la notte, finché il buio totale non ti avesse avvolto. Il cielo era sempre grigio e nuvoloso e quasi mai si liberava.
La pioggia, però, non accennava a smettere, oramai sentiva le ossa gelate fin nel midollo, con gli abiti zuppi e le membra scosse da tremiti di freddo.
Il sergente lo chiamò a gran voce; il sergente era sempre arrabbiato, con la voce sempre alta che urlava, ma probabilmente era quella situazione. Scivolando nel fango ritornò alla trincea principale, quindi si mise in piedi, ma cadde a terra, aveva le gambe intorpidite e non riusciva a stare in piedi. Il sergente arrivò di gran carriera, gli prese una spalla con la mano robusta e lo tirò in piedi.
- Rapporto, soldato!-
- Nessuna attività nemica riportata.- Il sergente annuì, poi gli diede una pacca sulla schiena e lo mandò a rifocillarsi.
Zoppicando e appoggiandosi al fucile arrivò alla “mensa”. Era una fossa più larga, con una tenda tirata sopra. Sotto un pentolone bruciava un grosso fuoco, attorno ad esso quattro o cinque soldati che cercavano di riscaldarsi, mentre un sesto uomo dal fisico flaccido e molle sotto una casacca senza gradi riempiva le gavette dei soldati con una brodaglia che aveva lo stesso colore del fango.
Si avvicinò, prendendo una gavetta di metallo ammaccata da uno zaino con il suo nome targato. Il cuoco pescò dal barile la sbobba con un lungo ramaiolo di legno vecchio. Cercò di riscaldarsi avvicinandosi al fuoco, ma il risultato fu solo quello di scottarsi la faccia; prese la gavetta piena e si mise a sedere su una cassa di munizioni accanto ad un suo compagno.
Le mani cominciarono a scaldarsi contro il metallo caldo per la brodaglia. Prese un cucchiaio e comincio a mangiare, il sapore era indescrivibile ma era caldo e riusciva a dargli energie, d’un tratto sentì qualcosa di duro e croccante misto alla minestra, ma ingollò tutto senza pensarci. Si voltò verso la persona sedutagli accanto, voleva dire qualcosa, intavolare una discussione, erano più di dieci Ohm che non parlava con nessuno, escluso il sergente, ma non gli venne in mente nulla e tornò a mangiare.
-Questa brodaglia diventa sempre più buona ogni geociclo che passa.- gli fece l’altro. Lui non ricordava esattamente il suo nome, loro lo chiamavano il “poeta” perché citava versi e li componeva, una volta gli aveva chiesto che cosa facesse prima di arruolarsi, il poeta gli aveva risposto che era un’insegnante, lui aveva sorriso.
Sorrise di nuovo alla battuta del poeta, aveva sempre una battuta pronta, pareva che nemmeno quel paesaggio spettrale potesse far tramontare il suo ottimismo.
-Credo di aver appena mangiato un insetto- gli disse con aria disgustata. Il poeta sorrise –beato te! Io è molto che non mangio carne vera! E fortuna che era cotto!- lui dapprima non disse nulla, si voltò per continuare a mangiare, poi cominciò a ridere nervosamente, poi sempre più sguaiatamente, come se non riuscisse a trattenersi. Continuò a ridere fino a quando non si accorse che tutti lo stavano guardando in maniera strana, allora si calmò asciugandosi le lacrime con la manica umida.
-Fa piacere vedere che qualcuno apprezza l’umorismo in questa landa -. Lui stava per rispondere, ma il sergente arrivò e si intromise nella conversazione – Caporale, basta con le spiritosaggini, abbiamo ricevuto nuovi ordini!- il poeta scattò in piedi sull’attenti, era caporale è vero, ma nessuno se ne ricordava mai, tranne il sergente.
- Avete cinque Ohm, poi porterete avanti un attacco di sfondamento verso le prime linee nemiche!- il poeta annuì e il sergente sparì nuovamente tra i corridoi di terra. – Avete sentito ragazzi, andate a riposarvi, vi chiamerò io.-
Gli altri sodati annuirono. Lui finì rapidamente la sua sbobba e si avviò verso lo zaino.
Lo smilzo lo chiamò con un gesto, anche dello smilzo nessuno usava mai il suo vero nome, anche se tutti lo ricordavano, perché quando marciavano, con lo zaino sulle spalle, lo smilzo marciava avanti, accanto al poeta, e la targhetta del suo zaino penzolava sopra le teste di tutti.
Si avvicinò allo smilzo, che gli offrì una fiaschetta scura, la prese dalle sue mani secche e lunghe, tirò una lunga sorsata, il liquido caldo gli bruciò la gola, ma contemporaneamente avvertì un senso di leggerezza alla testa e le membra gli scaldarono. Giunse, trascinando lo zaino ed il fucile ad un piccolo rannicchiamento nella roccia, si distese sopra una lunga cassa di metallo e legno; era una cassa da morto, era l’unica cosa sulla quale ci si potesse sdraiare senza trovarsi il fango sin nelle mutande; non sapeva se fosse vuota o piena, ma in realtà, non lo voleva nemmeno sapere, la nicchia offriva un minimo riparo dalla pioggia, inoltre i soldati avevano installato delle tettoie, così da lasciare le nicchie relativamente asciutte. Sistemò lo zaino a mò di cuscino e si tirò la cerata addosso; sentì uno scricchiolio sotto il sedere, allungò la mano tirandone fuori un piccolo scarbog zampettante, stette ad osservare il piccolo animale mentre scalciava furiosamente in aria e lo osservava con il muso molliccio agitando le lunghe antenne; d’un tratto la mano si strinse quasi involontariamente schiacciando il guscio chitinoso, l’animale smise di muoversi con un fischiettio, si pulì la mano sulla parete di roccia umida.
Odiava gli insetti, erano tra le pochissime forme di vita che abitavano Char, a volte diventavano enormi: ricordò con disgusto il giorno in cui una cavolatta saltellante, grande come un bambino, era piombata nel barile del pranzo e avevano dovuto ucciderla a fucilate, per paura di avvicinarsi alle sue chele velenose. Pensando questo si addormentò, vinto dall’estrema stanchezza, non se ne rese nemmeno conto. Sognò enormi scarbog armati di fucili e bombe che gli si arrampicavano su per le gambe ed il colletto: esplosioni di sangue e carne. Poi un mostro dalle fauci enormi si avvicinò a lui pronto a mordergli la testa e a staccarla.
Si svegliò di soprassalto, urlando mentre lo smilzo lo scuoteva – Amico. Stai bene?- lui si asciugò la fronte – Dobbiamo andare – disse lo smilzo e si avviò con il fucile in mano e lo zaino con la targhetta sulle spalle. Lui si guardò intorno ed annuì al vuoto come se lo smilzo fosse ancora lì.
Prese lo zaino e legò la cerata avvolta stretta attorno a cinghie consumate. Mise lo zaino sulle spalle ed impugnò il fucile. Il poeta lo raggiunse e gli fece un sorriso; lui prese l’elmetto e vi sputò sopra, non sapeva perché ma doveva portare fortuna, glielo avevano detto al campo di addestramento, tutti sputavano sull’elmetto prima di indossarlo, se sputi sull’elmetto i proiettili non lo colpiranno, finora quel sistema aveva funzionato.
Lui e il poeta so avviarono lungo lo stretto corridoio –Ha smesso di piovere- fece il poeta sottovoce.- il cielo si schiarisce…- commentò poi. Lui sapeva che questo sarebbe stato male, avrebbero potuto vederli, era assurdo che l’unica volta che il cielo si schiariva, a loro servivano le nuvole e l’oscurità. La squadra si era raggruppata lungo la trincea 12: erano in quindici in quella squadra, all’inizio erano trenta; i sostituti non erano ancora giunti, ma lui dubitava che sarebbero mai arrivati, spesso ripeteva al poeta che sarebbero rimasti solo loro 2 di tutta la squadra, era una sensazione che avvertiva dentro di se, il poeta sorrideva e diceva – Beh almeno ci sarà più sbobba per noi.-
Rapidamente il poeta spiegò l’obiettivo della missione, nessuno fece domande, fare domande non sarebbe servito a molto. Uscirono silenziosamente in fila dalla trincea; strisciando sul terreno umido si disposero a ventaglio, l’uno a qualche passo dall’altro. Lui cercò di appiattirsi il più possibile, sentiva le rocce ed il fango contro il corpo infreddolito.
D’un tratto il poeta alzò un braccio rapidamente e rapidamente lo abbassò. Tutti si fermarono in attesa. Strinse il fucile fino a sbiancarsi le nocche, l’indice accarezzò il grilletto nervosamente, ma resistette all’impulso istintivo di gettarsi in avanti sparando.
Adesso si sentivano chiare e distinte le voci del nemico nella notte, sebbene lui non capisse benissimo la loro lingua riuscì a distinguere alcune parole ed a estrapolare il senso del discorso: stavano parlando di una ragazza, uno di loro la stava descrivendo, non capiva bene ma a quanto pare era una ragazza bellissima e uno di loro ne era molto innamorato ma non aveva il coraggio di dirglielo, l’altro aveva fatto qualche battuta, forse spinta, e poi, dopo alcune risate, sembrava che stesse dando dei consigli al camerata. Con la mente lui tornò a casa, agli occhi di lei, voleva rivederla, abbracciarla, baciarla.
Un rombo lo fece sussultare riportandolo alla realtà. Il bombardiere passò molto al di sopra delle loro teste, ma la carlinga affusolata e scintillante si stagliava chiara e ben visibile contro le nuvole e il cielo stellato. Poi sentì il fischio chiaro e distinto, piccoli oggetti cominciarono a cadere. La squadra si rannicchiò al riparo mentre le bombe fioccarono ed esplodevano sulle linee nemiche, si sentirono delle grida ed imprecazioni, poi dalle loro trincee ci furono parabole infuocate che finirono a breve distanza dalle loro facce. Il poeta, a quel punto, si alzò slanciandosi in avanti e gridando –ALL’ATTACCO!!- quasi all’unisono tutte le squadre si alzarono dai loro nascondigli e avanzarono, correndo verso la prima trincea nemica.
Fu come se l’avessero colpito con una frusta, si alzò con le sole gambe, impugnando il fucile saldamente e sparando all’impazzata; lo smilzo gli era accanto, che correva e sparava, lui si voltò un attimo per osservarlo: correva, con le sue lunghe gambe che compivano lunghe falcate, con il fucile proteso in avanti, non vide il proiettile che lo raggiungeva, né l’arma dalla quale era partito. Fu come se lo smilzo fosse andato a sbattere contro un muro di mattoni; si rovesciò all’indietro facendo cadere l’elmetto, i suoi capelli chiari sparsi al vento. Le gambe lunghe che scalciavano in aria al vuoto. Lui si avvicinò correndo al compagno. Aveva gli occhi sbarrati dal terrore e dal dolore, provò a chiamarlo ma lo smilzo non rispose, la camicia inzuppata di sangue, lo avevano colpito in pieno petto, nel cuore che pulsando in un ultimo spasimo schizzò il sangue fuori dalla ferita, imbrattandogli la faccia.
Staccò una granata dalla cintura dello smilzo e la lanciò in un foro nemico più avanti, dopo l’esplosione si lanciò in avanti poi, con un balzo, fu dentro la trincea. C’era fumo dappertutto, un odore acre, spari e raffiche, urla e caos. Tra il fumo una figura gli andò incontro, aveva un fucile in mano. Lui prese la mira e sparò due volte, la figura si accasciò urlando dal dolore. L’urlo dell’uomo era familiare, troppo familiare. Si avvicinò con cautela, poi lo vide in faccia e scoppiò a piangere. Il poeta se ne stava steso per terra con la casacca piena di sangue, lui si chinò sul caporale, cercando la ferita per tamponarla, ma quello gli sorrise – non…avevo…sputato…bene…- poi chiuse gli occhi.
Lui stette là in quella buca con il cadavere del poeta sulle ginocchia, piangeva e non riusciva a fermarsi, non riusciva a pensare a niente. Poi ci fu un urlo, e una sfera di metallo rimbalzò sul suo elmetto cadendo poco più in là. Non fece nulla; l’esplosione non la sentì nemmeno. La vista si fece solo più grigia ed annebbiata; mentre era steso per terra uno scarbog gli si avvicinò, poi cominciò a piovere di nuovo. Pioveva sempre in quel maledetto posto…-

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