martedì 28 aprile 2009

prima storia del primo poeta


Questa è la storia del primo poeta che ha raggiunto la superficie. Perdonate il tono presuntuoso ed ridondante, ma il mio menestrello così me l'ha raccontata. Io così ve la racconto.



Benvenuti, signori, adesso mi racconto
sono il poeta che per primo è defunto.
E se ascoltare volete la storia del poeta
alzate il sipario di sangue e di seta.

Sono solo un pazzo, morto sulla strada di Borgogna.
Ho cantato la canzone di Ginevra per poter dormire la notte in un letto pulcioso e sporco. L'ho cantata per un pubblico indolente. L'ho cantata soprattutto per lei, Ginevra, seduta tra i cortigiani. La sua treccia lunga e scura. Ho cantato per quella treccia.

Nelle corti mi prostituivo, vendevo le mie poesie, le mie canzoni. Per dormire, magari anche mangiare.
Ho pregato con la mia musica e con le mie storie gli uomini più importanti di Francia, li ho pregati di concedermi di restare, di non lasciarmi morire di freddo e di fame. Non so neanche più quanti conti o vescovi, obesi o magrissimi mi abbiano cacciato dal loro palazzo, non so più quanti di loro mi abbiano sorriso e concesso di restare. Per "allietare" le loro ore notturne, per altro già liete, con il mio salterio. Con la mia voce.
Non mi disturbavano le loro orgie, il vino, le risa delle donne. Vi ho partecipato anche io, almeno per quanto fosse concesso a qualcuno che è meno di un servo.
Quello che mi umiliava, che mi torturava era vedere che nei loro volti vuoti non c'era traccia degli occhi feriti di re Artù, nè del sangue di Orlando, non piangevano del dolore di Ginevra, non dormivano al tocco leggero di Mab. Non seguivano le navi in tempesta, o le ricerche dei cavalieri di cui cantavo.
Lasciavano le mie parole scorrere nelle orecchie, come chi ascolta una lingua straniera, un dolce ronzio confortante, una musica colla quale incorniciare vino e cibo.
Mi chiedevo come potesse la regina restare lì indifferente, come potesse riuscire a concentrarsi solo sulle mie parole.
Lo stesso fece il giovane Galaad. L'unica volta che lo vidi fu quando narrai la storia di sua madre, maga del lago. Tra gli abiti colorati, tra gli occhi ridenti e i boccali di vino lo vidi danzare da solo. Non si intristì nel vedere che la sua storia non appassionava gli invitati. Continuò a danzare con la sua dama invisibile, rivolgendomi qualche sorriso e qualche sguardo.
Dal mio mantello poi usciva Morgana, che mi aveva chiesto di riposare, nascosta a Merlino nella mia tasca. Volava scura sui volti dei convitati, troppo impegnati a masticare e a bere per accorgersi dello svolazzare tumultuoso dei capelli e del vestito della maga.

Una sera d'inverno ho visto Orlando morire. Nella cenere caduta dal camino, ai piedi di una donna. La mia voce moriva piano con lui, mentre guardavo il volto teso che mi pregava silenzioso di fermare il dolore. La donna accanto a lui si alzava accettando un invito.
Smisi di cantare, nessuno se ne accorse. Cercavo aiuto tra i ballerini. Gli unici occhi che incontravo erano quelli del vescovo padrone di casa, l'unico che non danzava, mi fissavano acuti. La donna rideva allegra, inclinava la testa all'indietro.
Sono corso al centro della sala, urtando gambe danzanti e impigliandomi in gonne di velluto. Sono corso per vederlo morire.
Ho pianto, reggendogli la testa, sporcandomi le mani di sangue.
Poi il vescovo dagli occhi neri mi si è avvicinato.

Vescovo dagli occhi neri- gli dissi- pensi davvero che non sappia che Orlando non sta morendo sul tuo bel pavimento di pietra? Che non mi accorga dell'insofferenza nascosta così bene dalla pietà nel tocco della tua mano? Tu pensi che io sia pazzo e che non me ne accorga. La furbizia che è rimasta intrappolata tra le tue rughe non ti ha aiutato stavolta.
Oh caro Vescovo, se la follia me lo permettesse ti bacerei gli anelli d'oro; oh, cari convitati, i vostri volti pieni di imbarazzo e di piacere. Piacere nel vedere la mia umiliazione. Cari, miei cari, vi dirò una cosa: è per voi che sono così, per le vostre bocche che si riempiono di cibo ogni volta che canto degli stenti di Galvano. E, ogni volta che i miei versi, come armati di coltello, una volta giunti alla bocca, quasi tagliano la lingua per la loro intensità, voi ridete, voi baciate, vi addormentate.
Però Ginevra piangeva. Non mi ha più abbandonato.
Non pensi, allora, vescovo, che è solo la follia che mi fa sopravvivere? Quella che tu chiami demenza mi nutre più di quanto non faccia il pane, mi stordisce più del vino, mi appaga più di una donna.
Non vi disturberò oltre signori, non disturberò oltre neanche voi poeti morti, qui in cerchio, in ansia per poter raccontare la vostra storia.

Sono solo un pazzo, morto sulla strada di Borgogna.

4 commenti:

  1. questo racconto mi ha fatto venire in mente due pezzi di due libri bellissimi in mancanza del primo il castello dei destini incrociati di calvino (forse più appropriato come tema) ti scrivo una citazione del secondo pezzo, tratto dall'Aleph:
    "Gli chiesi cosa sapeva dell'Odissea [...]
    Molto poco, disse. Meno dal rapsodo più povero.
    Saranno passati mille e cento anni da quando l'inventai."

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  2. Addirittura Borges e Calvino! Non son degna.
    Però devo dire che "il castello dei destini incrociati" lo avevo presente mentre scrivevo... Tant'è che ci ho messo il tarocco del matto.
    Invece il pezzo dell'Aleph mi fa venire in mente immagini di altre cose che ho scritto. Ma Omero è sempre un richiamo a qualcosa di passato, di già vissuto, anche se non da me. Non ricordo neanche più, se mi permetti :" è passato troppo tempo." Ti farò sapere.
    Grazie comunque

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  3. ancestrale, drammatico, vivo, sofferente. l'anima del primo poeta morto! La mia editrice ha una penna dalla lingua forbita e dalle trovate entusiasmanti! debbo rendere omaggio a siffatta prosa, degna di un monologo teatrale! :D al più presto lo farò!

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  4. Grazie Border ( per l'editrice). Aspetto un altro tuo racconto.

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