venerdì 20 marzo 2009

Primo Racconto



Lascio andare il primo racconto di questo blog. Lo lascio partire, spero, verso gli occhi di lettori, altrimenti mi basta metterlo "in piazza", allontanarlo un po' da me. E' stato un racconto piuttosto snervante da scrivere, che mi ha coinvolta più di quanto gradissi, per questo l'ho scelto come il primo da fare partire.
Lasciandolo alla lettura diventa qualcosa di concreto e distante e non più solo delirio privato, solo così riuscirò a riconoscerlo.

ELISABETTA


Elisabetta, nome di regina, corpo di barbona.
Tutto quello che riesce a dire di sè. Tutto quello che riesce a pensare. L'abbiamo sempre osservata, non l'abbiamo mai perdonata. Le abbiamo puntato contro l'indice destro che lei non ha più, solo per il gusto di ricordarglielo.
Elisabetta, nome di regina, la regina vergine.
Non ha mai amato, non gliel'abbiamo mai concesso. Noi, che accompagnamo ogni suo sguardo, che giudichiamo ogni suo gesto, noi, immaginario pubblico da televoto, noi, personale auditorium invisibile, non le abbiamo mai concesso di ritenersi talmente importante da amare qualcuno.
Lei ci ha creati solo per questo, per ricordarle che la sua brutta faccia, il suo muoversi sgraziato, i suoi occhi vuoti non potranno mai essere amati. E' facile dimenticarsene, estremanente facile se si è stupidi come Elisabetta, ha bisogno di un auditorium invisibile che le ricordi chi è.
Così, con le forme di una scultura di Botero, Elisabetta, mano senza indice, con l'espressione di un volto di Schiele, si avvia verso l'unico lavoro che può fare: la serva. La colf, o collaboratrice domestica, al massimo cameriera, dice Elisabetta, serva - le rispondiamo noi.
Serva dice Elisabetta.


L'appartamento è luminoso, caldo, le concediamo di rilassarsi un poco, le concediamo un sorriso, ma uno solo, ogni volta che entra nell'appartamento di via Torino. Lui lavora seduto ad un vecchio tavolo, un tavolo antico - la correggiamo noi - di quelli che tu non potrai mai avere - aggiungiamo. Comunque lui sta lavorando, il portatile appoggiato sul tavolo antico, la schiena un po' curva, i ricci scuri. Forse Elisabetta vorrebbe sorridere, ma non le possiamo concedere un altro sorriso.
Lui le spiega cosa deve fare, non si gira a guardarla, le spieghiamo che è per via del dito, a tutti fa schifo un dito mozzato, un moncherino. E' anche per via del corpo che non la guarda, a tutti fa schifo un corpo come il suo.
Elisabetta, nome di regina, lavoro di serva.
Pulisce il pavimento, lo lava, respira con la bocca aperta, anche se noi le ripetiamo che non si fa, che è brutto da vedere. Suda, anche se noi le ripetiamo che non si fa.
Carica i piatti nella lavastoviglie, sono tanti, forse lui ha dato una cena.
Una cena a cui tu non potresti partecipare.
Quando sta per andare, lo saluta. Ma lui la ferma, le si avvicina, i pantaloni di velluto consumati sulle ginocchia, i calzini bianchi, le stringe la mano. La mano senza dito. Non solo, ma la guarda negli occhi. E' perchè gli fai pena, le diciamo subito noi, povera stupida Elisabetta, gli fai talmente pena che supera lo schifo che gli fa il tuo corpo e ti tocca.
Scende le scale non ci ascolta e fa un altro sorriso.


Notte. Nel letto la guardiamo mentre si rigira, vestita di un pigiama sintetico, i capelli arruffati. La guardiamo mentre pensa ai calzini bianchi di lui, a come scivolavano sul parquet a spina di pesce, che bell'effetto. La guardiamo mentre ripensa ai suoi pantaloni consumati, pantaloni da casa, Elisabetta non ha mai avuto pantaloni da casa: quello che indossa in casa lo indossa fuori, per lei non cambia molto,ed è giusto che non le interessi, nessuno la deve guardare. A parte noi.
Pensa alla mano di lui, non ha avuto esitazioni a stringere il moncherino, non ha avuto quel ribrezzo che ci si aspetta da chi tocca qualcosa di mutilato, di informe.
A questo pensa Elisabetta. Sola in un letto in cui non è mai entrato nessuno, in cui non entrerà mai nessuno oltre lei, oltre noi.
Elisabetta, nome da regina, regina innamorata.


Via Torino, ancora notte. Il portone scuro è chiuso. Te l'aspettavi aperto? Pensavi davvero che anche lui avrebbe cercato di raggiungerti, di parlarti, o che ti avrebbe aspettato con tanta ansia da aprire il portone?
Con la mano buona premi il bottone d'ottone del citofono, quanta insistenza per una che va al patibolo, ti diciamo noi. Perché è questo che succederà, lui ti riderà in faccia, ti caccerà a calci fuori dal suo bell'appartamento, anzi, niente calci, non lo toccherà più un corpo come il tuo, neanche con le scarpe, ma ti pregherà di uscire, di non tornare più. Cos'è questo se non un patibolo?
La voce di lui è roca, di sonno dice Elisabetta, forse di sesso diciamo noi, forse ha lasciato una donna magra e profumata, sotto una coperta calda, per rispondere al citofono che tu hai suonato.
Le apre il portone.
Elisabetta, nuda sotto il cappotto, ha salito le scale di corsa, con tutta la velocità che le sue gambe le concedono, la bocca aperta per afferrare più aria possibile, il moncherino al petto, per trattenere il cuore al suo posto.
Lui l'aspetta, tiene la porta con una mano, con diffidenza, le sbarra il passaggio nell'appartamento. E' normale, diciamo noi, una persona come te non si fa entrare in casa di notte, non si dovrebbe fare neanche entrare in casa.
Elisabetta nome di regina, corpo di barbona.
Si è sfilata il cappotto, gli offre il suo corpo, mutilato, pallido.
Carne al mercato, ridiamo noi. Quello è il corpo che nessuno ha mai visto, a parte lei, a parte noi, è quello che Elisabetta vuole mostrare. Si libera dagli sguardi degli altri, dai proprii, con un unico movimento, lasciando cadere la sua copertura, corazza protettrice della bruttezza.
Nuda sul pianerottolo, nuda di fronte a lui. Lui è sorpreso, forse disgustato? Lascia la porta, si tira indietro. Elisabetta, solo allora, sente la vergogna che risale calda il suo corpo, parte dai piedi, passa per il moncherino, si sofferma sul collo, le inonda la faccia.
Noi siamo lì, non diciamo nulla, non c'è nulla da aggiungere al suo patibolo. La guardiamo, come al solito, ma la guardiamo e basta.
Lui raccoglie il cappotto da terra, le si avvicina per farlo, le sfiora le ginocchia con i capelli, le poggia il cappotto sulle spalle, la fa entrare in casa. La vergogna rallenta il suo pulsare sulle guance, allevia il formicolio al naso.
La guarda e le sorride, le spiega che non è attratto da lei, glielo spiega abbottonandole il cappotto, poi, però le dice che gli piace averla vicino, gli piace parlarle. Le carezza i capelli dolcemente, la fa sedere sul divano.
Elisabetta ora piange, piange felice, noi scivoliamo via dai suoi occhi, bagniamo la lana del cappotto. Pubblico giudicante ridotto al silenzio di gocce d'acqua.
Elisabetta nome di regina, almeno hai trovato un amico.

6 commenti:

  1. bellissimo, ti tocca dentro.
    resto senza parole.

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  2. triste come racconto ma davvero bello!
    è interessante il fatto che la voce narrante implicitamente ma con grande astuzia si sia fatto amico il lettore attirandolo nel suo punto di vista e cioè deridere la povera Elisabetta.
    Un racconto davvero bello e pur senza dare una morale,senza avere un significato specifico, è riuscito a trasmettermi attraverso quell'accostamento di suoni il gusto di leggere.Ma un fine il racconto te lo da e chi legge ne trae qualcosa, una sensazione che può differire a seconda del lettore.
    Aggiungo infine che, come ha scritto la persona prima di me, "ti tocca dentro".

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  3. prosa densa di poesia, una storia toccante sciolta in un finale agrodolce. da gustare! bella!!! complimentissimi :D

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  4. Grazie per i vostri commenti. Sono contenta che il mio delirio personale vi sia piaciuto. Sono contenta ora che ho tagliato il cordone ad Elisabetta.

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  5. Un racconto bellissimo. Molto triste e toccante, soprattutto, secondo me, se letto da una donna.

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  6. complimenti!è un racconto stupendo!!!!sembra quasi di sentire realmente il personaggio di Elisabetta...è più di "ti tocca dentro",personalmente mi ha lasciato qualcosa dentro.

    O.

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